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Coronavirus, psicosi e individualismo

Il bisogno di anteporre i propri interessi a quelli della comunità è forse il fattore che più influisce sull'incremento esponenziale del virus

13 marzo 2020di Bianca Verolini

Il Coronavirus sta dominando le paure di tutti, e ci obbliga a fare i conti con la capacità di essere uomini in un momento in cui di umanità ce ne è davvero bisogno: se prima anteponevamo alla vita di uomo il nostro benessere o sopravvivenza, chiudendo porti e demolendo le vie della comunicazione, ora siamo noi gli emarginati, prigionieri di un Paese che ha bisogno di aiuto.

Camminando lungo le strade di Roma, mi accorgo di una città segnata dal virus: è immersa in un forzato silenzio dettato dalla paura, in maniera innaturale e carica di tensione, le preoccupazioni nazionali sono di tutti.

Ci troviamo in un periodo storico turbato dagli eventi che lo caratterizzano, in cui ciascuno viene posto dinnanzi a verità inopinabili e ha il dovere di combattere le proprie abitudini. Il problema che stiamo tutti vivendo chi affrontandolo faccia a faccia chi osservandone gli effetti da dietro un muro di vetro ci obbliga a scardinare la routine, interrompendo rapporti e frequentazioni sociali.

È una situazione mai vista prima, che le future generazioni studieranno sui loro libri di storia; ma cosa ha portato la società a ridursi a questo, a vivere una situazione di disagio collettivo immersi in un clima di paranoia e irragionevole psicosi?  Ci rendiamo conto della gravità delle nostre azioni solo quando ci si presentano dinnanzi gli effetti dannosi, e agiamo di conseguenza con la stessa superficialità e insensatezza. Il bisogno compulsivo di anteporre i propri interessi a quelli della comunità è forse il fattore che più influisce sull'incremento esponenziale del problema. Ce lo dimostra il fatto che dopo essere stato emanato un decreto che consiglia di non uscire di casa per evitare l'aggregamento di persone, la reazione generale è quella di precipitarsi al supermercato più vicino per una folle corsa in cerca dell'ultimo pezzo di pane, quasi fossimo in guerra l'uno con l'altro. E non si sta parlando di senso civico e relazionale, ma dell'evidente incapacità del nostro Paese di reagire consapevolmente ad un problema collettivo; ma la soluzione deve partire innanzitutto dal singolo: perché si instauri una condizione di armonia generale ciascuno deve prima rendersi consapevole dei propri limiti nella visione analitica delle cose. Come si può pensare di risolvere un problema creandone altri, perdere la razionalità proprio nel momento in cui ce ne è più bisogno? Il superamento di tale situazione porterà un nuovo e più consapevole equilibrio di cui la città avvertiva già la necessità. In futuro dobbiamo guardare a questi giorni che stiamo vivendo con lo sguardo consapevole di chi ha compreso i propri sbagli; la sofferenza che ci sta trasformando in animali che non hanno rispetto per nessuno e rispondono solo al richiamo del proprio istinto di sopravvivenza è la stessa di chi in passato abbiamo respinto e discriminato, per privilegiare noi stessi e per paura del diverso.

 

 

 

 

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