Musica

Esiste ancora musica per cui valga la pena finire in prigione?

La storia della “bone music”, la musica ribelle che ti vibra nelle ossa e che ti entra nella pelle

31 gennaio 2020di Bianca Verolini

 È difficile immaginare un mondo nel quale l'unica musica che possiamo ascoltare è quella che ci viene imposta. Oggi per fortuna abbiamo la possibilità di sentire la musica che più ci piace, senza censure o limitazioni. Con lo sviluppo delle piattaforme streaming infatti le nostre canzoni preferite sono tutte a portata di mano e non ci sono distinzioni fra un genere e l'altro. Col passare del tempo il mercato musicale si è evoluto: negli anni 60 l'unico modo per ascoltare la musica era acquistando vinili o mediante la radio, che mandava in onda giorno e notte le melodie e i ritornelli che hanno fatto la storia, da “All you need is love” a “I can't get no satisfaction”. La musica rappresenta da sempre un linguaggio universale, in grado di unire le persone e renderle libere, ma non è sempre stato così: in Russia, dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando Stalin salì al potere, decise di bandire dal Paese la musica straniera. Con la nascita dell'Unione Sovietica, il governo russo cominciò ad avere un' ingerenza totale anche nella sfera culturale; dopo la Guerra Fredda infatti jazz e rock n roll divennero la musica del nemico, in grado, con i loro ritmi sfrenati, di incitare gli animi dei giovani e fomentare cattivi comportamenti.

Per i ragazzi dell'epoca non poter metter su un vinile dei Beatles dei Pink Floyd o dei Rolling Stones per paura di finire in carcere, era diventato inaccettabile. Per questo motivo intorno agli anni ’60 i cosiddetti stilyagi decisero di ribellarsi all’autorità. Erano una sottocultura di giovani russi con un forte interesse per il mondo occidentale, del quale durante la guerra avevano appreso usi e costumi restandone affascinati. Uno di questi giovani, Stanislav Philo, tornato dall'Europa con una macchina che serviva a duplicare i dischi si lanciò nel business dei vinili di “contrabbando” che subito prese piede: fra i ragazzi incominciò a diffondersi la cultura musicale dell’Occidente, partendo dal boogie woogie di Chuck Berry per arrivare fino al rock’n’roll di Elvis.

Vi era tuttavia un problema: le puntine d'acciaio dei giradischi sovietici erano troppo dure per solcare la superficie fragile dei vinili. Uno dei clienti più fedeli di Philo era un ingegnere del suono di soli diciannove anni, Ruslan Bogoslowski, che fu in grado di ricreare una versione più moderna della macchina per incidere i dischi che utilizzava Philo; l'ultimo passo da compiere era procurarsi la materia prima. Ruslan trovò una grande quantità di lastre, pronte a essere distrutte e decise di incidervi la musica sopra: secondo la legge russa dell’epoca infatti, dopo un anno esse dovevano essere smaltite e gli inservienti degli ospedali cominciarono a venderle.

Ecco come avveniva il processo di fabbricazione: i solchi venivano impressi sulla radiografia, alla quale poi si dava una forma circolare e, utilizzando una sigaretta, si praticava un foro al centro per far si che il disco si potesse riprodurre. Immagini di dolore incise con i suoni del piacere, nacque così la cosiddetta “bone music”, la musica ribelle che ti vibra nelle ossa e che ti entra nella pelle.

In tanti hanno rischiato la galera, pur di saziarsi di note, portando avanti quella che era diventata una vera e propria protesta sociale. Esiste ancora oggi musica per cui valga la pena finire in prigione?

 

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